Davide Coltro ” Viventi ” a cura di Mimmo Di Marzio. Dal 7 al 21 marzo 2002
“Il filosofo del misticismo Ibn Arabi affermava che tra l’universo che può essere capito solo grazie alla percezione intellettuale più pura (il regno assoluto del divino, “l’universo delle intelligenze dei cherubini”) e l’universo percepibile ai sensi, “si apre un mondo intermedio, il mondo delle Idee-Immagini, e figure archetipe, sostanze rarefatte, materie immateriali. Questo mondo è reale e oggettivo, opaco e tattile quanto gli altri mondi intelligibili e sensibili: c’è un universo intermedio in cui lo spirituale prende corpo e il corpo diventa spirito”. E’ esattamente questo il mondo a cui si dedica Davide Coltro, raffinato artista veronese che utilizza il mezzo fotografico per indagare nei segreti della natura. Nel mondo, appunto, delle “idee-immagini”.
Parlare di mezzo, di strumento, anzichè di fotografia diviene necessario nel caso di un autore per il quale l’occhio dell’obiettivo non assume mai una funzione rappresentativa o artistica in senso puro, ma rientra in una dimensione teorico-progettuale, metaforica delle infinite modalità e possibilità di relazione interumana. Impossibile tentare una contestualizzazione dell’opera di Coltro senza sciogliere questo equivoco di fondo. Coltro non è un fotografo. Oppure, come potrebbe affermare lo scultore di anime Joseph Beuys, “tutti gli uomini sono fotografi”, nel senso di tutti coloro che credono di aver individuato quel nesso vitale presente tra il visibile e l’invisibile, ovvero – direbbe Bill Viola – “tra un astratto fenomeno interiore e il mondo materiale esterno”. Su un piano strettamente epistemologico, potremmo dire che Coltro contrappone alla filosofia dell’io artistico creatore un’etica oggettivistica dove la verità esiste indipendentemente dal soggetto che la percepisce.
C’è un che di alchemico, di trasmutante nel processo messo in atto dall’artista che, nel ciclo dei “Viventi”, fotografa l’uomo con la macchina fotocopiatrice fino ad ascendere, attraverso sequenze di immagini complementari, all’altra dimensione, quella dell’assoluto e dell’impercettibile. Coltro fotografa “anime” ma al contempo sembra voler porre sè stesso in un ruolo totalmente mediatico (o medianico). La sua folla di viventi sembra comporsi di personaggi in cerca d’autore ma chi è -appunto- l’autore? L’essere dell’oggetto che si manifesta e viene riconosciuto dal soggetto? L’artista-soggetto come territorio privilegiato dell’accadere della verità? Oppure è la verità stessa che diviene oggetto, si identifica con esso, lasciando all’artista soltanto il compito di riceverla e di scoprirla? Coltro sembra lasciare sospeso tale interrogativo, traendo in inganno lo spettatore attraverso un’iconografia dai toni lirici, quasi manieristici, dove la macchina diviene strumento per rappresentazioni talmente pittoriche da sconfinare nell’ambiguità.
Ma l’elemento estetico è, nella sua opera, parte integrante di un progetto concettuale che esclude la bellezza nel momento stesso in cui pare esaltarla. La folla di anime isolate teatralmente, spesso seguendo canoni classici della sezione aurea, sono il risultato di un’opera documentaristica che vuole archiviare, con freddezza quasi scientifica, la natura umana intesa come riconoscimento di identità. Ovvero, per usare una definizione di Charles Taylor, “la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”.
Questa definizione è particolarmente interessante, in quanto mette in luce due aspetti fondamentali della questione identitaria: innanzitutto il fatto che l’identità si basa sulla “visione che una persona ha di se stessa”, quindi sul sentimento di sé, interiormente costruito, come individuo, sentimento, però, in cui la questione identitaria non può considerarsi esaurita. E’ necessario, infatti, inserirsi entro una dimensione interpersonale per prendere coscienza di sé come essere umano, o meglio, della modalità specifica in cui l’Umanità si oggettiva in ognuno di noi, in un modo del tutto peculiare che può venire compreso, proprio nella sua unicità, nel confronto con l’altro, e nel riconoscimento reciproco delle rispettive specificità.
L’affermazione “abbiamo bisogno di relazioni per completarci, ma non per definire noi stessi” s’inscrive, a pieno titolo, nella processualità della questione identitaria. Entro tale processo (che si presenta, comunque, caratterizzato da numerose gradazioni di sfumature) è necessaria la definizione di una base, di uno zoccolo identitario, attraverso un percorso intrapersonale, al di là di ogni negoziato, o influenza esterna, per poi sottoporlo al riconoscimento altrui, che ne potrà plasmare i confini, definirne i contorni, mai l’essenza. L’opera di Davide Coltro ispeziona in modo originale e approfondito la presa in considerazione della dimensione interpersonale che conduce la connessione della questione identitaria alla richiesta di riconoscimento, richiesta, questa, particolarmente significativa per esseri quali noi siamo. Come sottolinea lo stesso Taylor, “il non riconoscimento o il misconoscimento, può danneggiare, può essere una forma di oppressione, che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito”.
I ritratti di Coltro, ottenuti con la fotocopiatrice simbolo tecnologico di serialità e misconoscenza dell’identità originale, sembrano appunto voler risvelare l’esclusione, la condanna al silenzio, alla non visibilità, ovvero la condanna peggiore per un essere umano, che ha bisogno del riconoscimento proveniente dall’esterno per vivere socialmente.”
Mimmo di Marzio