Matteo Negri “Piccolo paesaggio” A cura di Giovanni Agosti. dal 8 febbraio – 18 marzo
Piccolo paesaggio
Giovanni Agosti
Non sembrano le sculture di uno che ha poco più di vent’anni queste bocce colorate di Matteo Negri. Sono venute prima, tra fine ottobre e inizio novembre del 2005, quelle bianche; poi, verso il Natale, quelle rosse e nere, nate insieme ma pure così diverse nei risultati; per ultime, in corsa con i tempi di questa mostra, quelle blu.
Come sembrano lontani, adesso, i lavori di quando ho conosciuto Matteo, due o tre anni fa: erano blocchi di pietra di Vicenza, pezzi di ferro e terrecotte, che simulavano motori o ingranaggi: pompe e carburatori e iniettori, Guzzi e Bultaco. Come di chi girasse tra San Donato e Cernusco – il luogo dove è nato e quello dove vive – andando in cerca degli sfasciacarrozze o delle discariche. Mi sembrava che ci fossero modi migliori per passare le serate dei vent’anni, tanto più che a Matteo non piace fermarsi, nelle piazzole, a scherzare con i camionisti. Non che non abbia avuto anche lui, a sentirlo, la sua fase di dissipazione: ma fa tenerezza quando la racconta, dal pulpito dei suoi ventitre anni, e mentalmente la paragono ai libertinaggi, ben più disperati, in mezzo a cui siamo cresciuti noi.
E poi io non sopporto la retorica delle periferie e, men che meno, quella del degrado. Quelle forme erano però disegnate con una sapienza un po’ vecchia, come di chi da ragazzo, in un’altra vita, si fosse cimentato con la carta millimetrata arancione e bianca a riprendere, in proiezione ortogonale, figure difficili: imprese da applicazioni tecniche, alle medie. Con un’etica del lavoro, seria, quasi seriosa: come di chi cercasse, calandosela addosso, una moralità della scultura. Nulla, proprio nulla, da under 25: niente spiritosate né trovate né pupazzi di plastica o lattice, che a me invece – qualche volta – fanno piacere. Compagnie occasionali in imprese di beneficenza rischiavano di stingere, semmai, sul fronte pericoloso delle buone intenzioni
Provavo a cavare fuori, forse sovrapponendo e imponendo altre retoriche, altre mitologie, un lato giocattoloso alle espressioni di Matteo: lo spingevo a trasformare le sue sculture in incontri di mostri meccanici: un ring, all’Arengario, di plastica rossa dove un Polipo e una Gru, come in una favola di Esopo, si affrontavano in mezzo a due dita d’acqua, su cui brillavano i fari; fuori dalle vetrate sporche, il Duomo di Milano che cambiava colore a seconda delle ore del giorno. Da quella disfida 2004, ambientata in una piscina per bambini ma provata prima in una palestra di rione, nascevano dei souvenirs multipli, rigorosamente numerati. Mi è rimasto il timore che quella, chiamiamola, concettualizzazione delle opere e connessa insistenza sulle forme della presentazione, fosse più un’istanza mia che un desiderio di Matteo, portato per natura a disinteressarsi di certi dettagli (eppure, “Dio sta nel particolare”).
Nel 2005 Matteo ha lavorato tanto con la terracotta, intorno a delle forme sferiche che sono – nell’immagine di partenza – bombe e mine sottomarine. Le ha presentate intere e spaccate, da sole, in gruppo, per terra, per aria, con la luce dentro, con la luce fuori, su uno strato di terra battuta o tra nuvole di polvere rossa: persino su delle amatissime spugne Ghidoli, color arancione. Niente ricerca di volumi puri, di gesti assoluti: piuttosto figure investite con insistenza, grondanti di tono dall’interno e dall’esterno. A un certo punto, in autunno, sono venute fuori – dal bagagliaio della sua macchina – delle sculture in ceramica bianca: un salto di qualità, improvviso ma coerente. C’è stata, immediata, la consapevolezza di avere trovato una strada giusta. E insieme la scoperta dei forni, dei passaggi delle cotture, del mondo di Curti. E la sfida dei colori, che, travolgendosi a temperature così alte, conducono a inattese inversioni sentimentali. Chi l’avrebbe detto che queste bocce blu sarebbero diventate, alla fine del trattamento, tanto orientali? Come gli elefanti cinesi in ceramica delle mostre missionarie o del Vittoriale degli Italiani o di casa mia… Da qui la volontà di domare quelle terre matte e sdrucciolose, la tentazione di affidarsi a chi sa cuocere: i pezzi rossi sono impeccabili; i rischi della monocottura, dove la fretta non paga, si vedono invece nelle sculture nere, cariate come le grotte dei Marabar. Piccoli paesaggi, no?
Se ci fosse ancora un terreno condiviso di conoscenze, si potrebbe stare a parlare di Luca Della Robbia o di Leoncillo: spero, moralisticamente, che Matteo si informi, prenda consapevolezza della storia che sta dietro le spalle, anche di quella più lontana, anche degli autori fuori dal canone degli adolescenti: e la usi come vuole e come può. Mi fa piacere che sulla porta del suo studio, a Cernusco sul Naviglio, ci stia un’immagine della cupola della basilica di Superga: magari è lì per un trascorso sentimentale; di certo quelle forme architettoniche hanno da insegnare non poco. E perciò immagino Matteo sfogliare libri su Juvarra o su Guarini, a testa in su tra i reticoli della cappella della Sindone, guardare dall’alto Stupinigi sotto la neve, andare a Roma a baciarsi nel cortile di San Carlo alle quattro Fontane.