Nero italiano


Nero italiano

Roberto Coda Zabetta, Davide Coltro, Marco Fantini, Giovanni Frangi, Giovanni Manfredini

a cura di

Ivan Quaroni

dal 18 dicembre al 5 febbraio

La galleria Obraz inaugura la nuova sede nel centro storico di Brescia con una mostra collettiva che coinvolge cinque tra i più noti giovani artisti italiani, che utilizzano le tonalità del nero per dare corpo alle loro opere.

Il critico Ivan Quaroni ha raccolto cinque diverse “interpretazioni” del colore nero affinchè possano confrontarsi negli ampi locali della nuova galleria. Si va dalla densa materia espressiva di Giovanni Frangi alle rarefatte figure di Davide Coltro, immerse nel mistero del buio, dalle impronte di luce dei corpi di Giovanni Manfredini all’espressività dei volti di Roberto Coda Zabetta, fino alle visioni oniriche ed esistenziali di Marco Fantini.
Saranno in mostra una ventina di opere, che comporranno un percorso attraverso 5 declinazioni di nero, una breve incursione nel buio dell’arte italiana …

Con l’apertura della nuova sede bresciana Obraz intende iniziare un ciclo di mostre di più ampio respiro, con mostre esaurienti del percorso di un artista, dedicate allo sviluppo dei progetti proposti nella sede di Milano, dove continueremo a svolgere l’attività di ricerca sui talenti esordienti.

Nero Italiano

Si può illuminare un cielo nero e fangoso?
Si possono lacerare tenebre più dense che la pece,
senz’alba né tramonto, senza astri né lampi funerei?
(Charles Baudelaire – L’irreparabile)

A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti,
che ronzano intorno a fetori crudeli, golfi d’ombra.
(Arthur Rimbaud – Vocali)
Michel Pastoreau, storico francese e docente di Symbolique médievale et moderne alla Sorbona nel saggio intitolato “Bleu. Hisoire d’une couleur” sostiene che non esiste una verità transculturale del colore, come vorrebbero far credere certi libri che si basano su un sapere neurobiologico o, peggio ancora, certi scritti “che cadono in una psicologia esoterizzante da quattro soldi” . In poche parole, per ogni colore non si possono trovare significati e corrispondenze univoche in ogni parte del mondo e talvolta nemmeno nello stesso paese perché essi cambiano non solo a seconda delle latitudini, ma anche a seconda delle epoche storiche. In pratica, nessun colore ha un significato assoluto. Se nell’Occidente odierno è il nero il colore funebre per eccellenza, in Giappone è il bianco a rappresentare il lutto. Mentre per noi il bianco è tradizionalmente abbinato alla purezza virginale e al matrimonio, in Cina è uso che la sposa indossi abiti rossi. La relatività simbolica del colore è dunque un fatto puramente culturale. A sostegno delle teorie di Michel Pastoreu, che è appunto uno storico del colore e non uno storico dell’arte, si possono citare i più recenti studi scientifici.
Il colour designer Giulio Bretagna riassume così il meccanismo della percezione visiva :
1. Le cose illuminate emettono una parte della luce, la quale arriva ai nostri occhi e vi penetra.

2. I nostri occhi elaborano la luce emessa da un oggetto codificandone forma, rapporto chiaro-scuro e colore.

3. Queste diverse codifiche vengono inviate al cervello che ce le fa percepire attivandosi in diverse aree ben identificate dalle Neuroscienze.

4. La percezione visiva avviene quindi grazie al cervello e nel cervello stesso: è quindi “virtuale” come i nostri pensieri e la nostra immaginazione e, come questi, in grado di provocare risposte emotive ed atteggiamenti psicologici diversi.

5. La visione è quindi un’interpretazione intersoggettiva (comune a tutte le persone) della realtà che ci circonda ma, attivandosi in sinergia con le complessità del pensiero e della situazione psicologica dell’individuo, assume delle connotazioni di soggettività.

Sembrerebbe, dunque, che le osservazioni della fisica e quelle della storia sociale del colore concordino su un punto fondamentale, ovvero la relatività della visione come esito da un lato di processi psico-fisici, dall’altro di fattori storico-culturali.
In Europa, e a maggior ragione in Italia, abbiamo detto che, per fattori unicamente culturali, il nero è un colore convenzionalmente associato al lutto, alla morte, ma, aggiungiamo, anche alle forze negative dell’esistenza.
Eppure, in barba ai pregiudizi, nessuno dei cinque artisti presi in esame in questa mostra, utilizza il nero in tale accezione, ma ognuno lo interpreta sulla base di istanze soggettive forti, le quali, come abbiamo visto, risultano determinanti nell’elaborazione psicologica del meccanismo fisico della visione.
Risulterà allora più utile affidarsi ad una breve disanima dei singoli artisti con le loro specificità, piuttosto che osservarne i punti di contatto attraverso la lente macroscopica della simbologia. Il tema di una mostra, infatti, è quasi sempre d’occasione, un modo come un altro di riunire gli artisti che ci interessano e mostrarne il lavoro, magari sulla scorta di una suggestione, di un pretesto visivo che accompagni l’osservatore senza la pretesa di costringerlo entro rigidi confini interpretativi.

Quella di Giovanni Manfredini è una pratica artistica in bilico tra la gestualità della body art e la tradizione della pittura classica, soprattutto quella che nel Seicento indaga i confini tra luce e tenebra. Il corpo, tema cardine della sua ricerca, è affrontato con piglio esistenziale, come una sorta di simulacro dai significati universali. Le immagini della pittura di Manfredini, ottenute praticando il calco del proprio corpo su una patina di nerofumo applicata sul supporto e poi corrette con successivi apporti “pittorici”, rappresentano l’affiorare del corpo alla luce. I suoi “Tentativi d’esistenza” – si chiamano così i dipinti dell’artista – testimoniano l’uscita lenta e faticosa dell’uomo dal buio esistenziale. Un’uscita, direbbe Kant, dallo stato di minorità.
Con la sua arte fatta di pelle e fuoco, di ombre e luci, Manfredini travalica il ristretto ambito biografico, da cui peraltro prende le mosse la sua ricerca, per narrare finalmente la storia di un’emancipazione spirituale, di una conquista che può ben essere quella dell’umanità tutta.

I “Misteri” di Davide Coltro sono immagini digitali dall’innegabile vocazione pittorica. L’artista parte da una fotografia, sceglie un soggetto e lo isola, privandolo del contesto ambientale cui appartiene, quindi lo immerge in una dimensione a-temporale, in un luogo psichico a metà tra l’umano e l’angelico.
I personaggi di Coltro sono immortalati nel quotidiano andirivieni delle metropoli, strappati alla strada per essere poi inseriti in una dimensione metafisica che si avvale del colore nero per solidificare il senso di sospensione e, quasi, di aureo isolamento. Sul piano visivo si genera così un netto contrasto cromatico tra l’aura luminescente dei soggetti – sempre colti di spalle, dunque anonimi – ed un fondale nero, come d’ombra uniforme, che ha il pregio di ridurre al silenzio il folle rumore del cosmo.
Se da un lato i “Misteri”di Coltro sembrano denunciare la carenza di struttura spirituale dell’uomo contemporaneo, dall’altro affermano la necessità di una pausa, di una mistica sosta entro cui l’individuo possa ritrovare il senso perduto delle cose.

Quelle di Roberto Coda Zabetta sono opere che hanno il pregio di essere immediatamente riconoscibili e che, grazie alla sua inconfondibile sigla stilistica, sviluppano un linguaggio espressivo – o forse dovremmo dire espressionistico – che unisce alla violenza e velocità del gesto la densità della materia pittorica.
Si tratta, infatti, di ritratti eseguiti con il cromolux, uno smalto industriale che riduce al minimo la possibilità di correggere eventuali sbagli, di volti che danno l’impressione di sfondare il nero lucente della tela per raggiungere la dimensione ingigantita del primissimo piano ed affermare così tutta l’urgenza espressiva di un’emotività straripante.
Severi oppure dolorosi, urlanti o in preda a una gioiosa frenesia, i volti di RCZ, sono il risultato di una tecnica che procede per ampie e veloci pennellate, che trasfigura l’immagine mediatica di partenza immergendola in una sorta di flusso pittorico ad alto contenuto emotivo. Una tecnica – come è stato giustamente scritto– che richiama lo spirito libero dell’improvvisazione jazz, allorché rilegge la fissità dello standard alla luce di una personalissima interpretazione.

Basata sulla reiterazione di pittogrammi ricorrenti e di figure emblematiche quali il teschio e Mickey Mouse, qui svuotati di ogni significato letterale e utilizzati unicamente come pretesto visivo, la ricerca di Marco Fantini è tutta tesa ad affermare l’assoluta autonomia del linguaggio pittorico che, fatta eccezione per il Cinema, è l’unico tra tanti media a poter condurre un’analisi sui propri fondamenti costitutivi. Un discorso “della pittura sulla pittura” dunque, eseguito mescolando le immagini derivanti dalla realtà con quelle generate da un’immaginazione drammatica e a tratti surreale.
Nello spazio claustrofobico delle stanze dipinte da Fantini, si passano il testimone visioni stranianti e figure in aperto contrasto stilistico, elementi di una opposizione che finisce per stemperarsi entro i confini di un linguaggio fluido. In quella che Marco Vallora ha definito “coabitazione coatta” Fantini costringe entro campiture dai contorni ora netti e definiti ora morbidi e sfumati i segni di una grammatica eterogenea dove il nero è una chiave di volta dimensionale, un elemento di definizione dello spazio della visione.

Dopo le quattro gigantesche tele di Nobu At Elba, che obbligavano lo spettatore ad immergersi in una pittura dalle potenti suggestioni naturalistiche, esplorando lo spazio di un paesaggio umbratile e struggente, Giovanni Frangi torna al tema delle Isole con quattro carte intitolate Amici miei. I lavori su carta sono da sempre, per l’artista, il luogo deputato ad esprimere un linguaggio formale più libero, capace di accogliere le variazioni sperimentali della sua grammatica pittorica. Ora, soprattutto con le due grandi carte di questa mostra, Frangi ripercorre le notturne visioni dei suoi “paesaggi” fluviali, potenziando la drammatica trama dei suoi neri con una squillante nota argentina. Le buie superfici dei suoi quadri, che rievocano il lento adattarsi dell’occhio ai contorni di un universo immerso nel buio fondo della notte, s’illuminano così di una luce fredda, mercuriale, che intensifica il riverbero emotivo di questa pittura. Una pittura impetuosa, che percorre il crinale tra due codici espressivi, quello astratto e quello figurativo, nella convinzione che l’arte non è mai un problema di definizione, ma piuttosto di rappresentazione. O meglio, di restituzione, a qualsiasi costo e con qualunque mezzo, delle intuizioni di una fertile immaginazione.

Ivan Quaroni