Andrea Zucchi


Andrea Zucchi : ” Combinatoria” a cura di Marco Meneguzzo Dal 27 ottobre al 27 novembre 2004

 

 

 

 

NEL FLUSSO DELLE IMMAGINI
di Marco Meneguzzo

Il caso è un avvenimento che l’uomo difficilmente sopporta. Ne sanno qualcosa i creatori di miti, gli astrologi, gli psicanalisti.

Così, quando due o più immagini, lontanissime tra di loro, sono forzatamente accostate e costrette a convivere su una tela, l’una accanto all’altra, non possiamo non innescare il meccanismo mentale che cerca le relazioni possibili tra quelle due immagini: il caso puro e semplice, quello della poesia dadaista formata dalle parole estratte a sorte da un cappello, è insopportabile, tanto che anche in quel caso – della poesia, appunto – le parole e le frasi formate in quel modo assumevano un significato che all’interno del cappello non avevano.
Così agiscono anche le immagini di Andrea Zucchi.

Naturalmente, la prima tentazione è quella di scoprire il mistero chiedendo direttamente all’autore il motivo di una scelta, ma le parole di Zucchi non aiutano a scoprirlo: egli appare sinceramente imbarazzato di fronte a una domanda che sembra non essersi mai posto. “Sono affascinato da certe immagini – dice – e me ne approprio. Non so perché le accosto…”.
Ora, di fronte a una dichiarazione così disarmante, le possibilità di indagine intravedono due strade, non sempre opposte ma certo abbastanza separate: il percorso psicologico e quello linguistico, formale, strutturale.
Perché affrontare l’immagine di un acaro ingrandito migliaia di volte al Guggenheim di Bilbao? O un microrganismo marino alla nube sollevata dal crollo delle Twin Towers? O una divinità indù a un impianto di raffinazione di gas naturali?…
Il percorso della psicologia dovrebbe addentrarsi nella soggettività di Zucchi, a scoprirne preferenze, pulsioni, suggestioni, storie individuali e personalissime dietro l’apparente casualità delle scelte… ma, alla fine, a noi cosa importa? L’opera è lì, e il cordone ombelicale con l’autore è stato reciso.
Semmai, ciò che interessa – al di là delle “nostre” pulsioni che, di fronte alle opere di Zucchi ce ne fanno preferire una piuttosto di un’altra perché, che so, ci piacciono i fenicotteri o la civiltà egizia, mentre ci fanno orrore gli insetti e le dissezioni anatomiche…- è l’organizzazione delle immagini “casuali” in un sistema compositivo che appare intuitivamente, emotivamente coerente.

La prima ipotesi – come si è accennato sopra – è che le immagini, alla fine, casuali non siano, ma posseggano relazioni nascoste, non immediatamente visibili. Eccone alcune: l’antico e il moderno; la natura e la cultura, unite dalla violenza…oppure ancora, scendendo nel particolare, nelle opere di Zucchi c’è una singolare presenza di figure “catafratte”, ricoperte di una corazza, o da una maschera protettiva contro l’esterno – reale e metaforico -, che vanno dal carapace invisibile degli insetti più piccoli, alle armature cinquecentesche o ai camici per la guerra batteriologica o ai burka afgani o alla maschera di Tutankhamon, per arrivare alla copertura in titanio di Frank O.Gehry per Bilbao.
E tuttavia, questo in fondo fa parte di quello che abbiamo definito aspetto psicologico del lavoro, che naturalmente sfiora anche i nostri caratteri, le nostre storie, ma che non è sufficiente a “tenere insieme” le parti della composizione…

Poco sopra si è ricordato un famoso esperimento dadaista; qualcuno – Mimmo Di Marzio – in un testo recente ha parlato per Zucchi di atteggiamento surrealista nell’accostamento delle immagini: può dunque essere il “nonsense” il senso di questa giustapposizione di immagini?
Non credo.
Perché il “nonsense” abbia senso (ci si scusi il gioco di parole…) è necessario che il confine tra gruppi di parole o di immagini dotate di coerenza sia ben codificato e distinto da quelli che non lo hanno, e se al momento della grande risata dadaista o della pignola lezione introspettiva surrealista questo confine era ben delineato, oggi non lo è più. Ecco allora che quelle citazioni possono servire solo come lontane similitudini, fatte per non sentirsi completamente spaesati in un contesto nuovo, ma nulla più. Di fatto, il “nonsense”, oggi, non ha senso, perché la quantità di immagini che ci viene giornalmente proposta è incommensurabile, e impossibile ad essere organizzata. Ecco allora che forse è più attuale e corrispondente alla situazione di fatto, parlare di “flusso”, che è termine neutro, come neutra (!) può essere l’indifferenza con cui guardiamo a tutte le immagini, sia che dietro ad esse si celi una strage terrorista o l’ultima fiction tv.

Zucchi, come tutti noi, vive in questo flusso di immagini, e allora acquista significato quella dichiarazione di “non-scelta” delle immagini o, meglio, di scelta dettata da motivi che egli stesso non si preoccupa di indagare. Semmai, ciò che tiene unite quelle immagini così distanti è quella sorta di “tessuto connettivo” colorato, costituito da quei segmenti astratti, da quella specie di “disturbo elettronico” formato da rettangoli che si sovrappongono all’immagine, o da quel “riempitivo” decorativo che riconduce alla serialità del rettangolo della tela immagini dimensionalmente differenti.

Come accade in un rotocalco, è il pattern disegnato, è la grafica che induce l’occhio e poi la mente a collegare le immagini, a “mettere la cornice” a un gruppo di figure, altrimenti passibili di trascolorare senza traumi nel servizio successivo. Allo stesso modo, quell’aspetto apparentemente marginale del lavoro di Zucchi, che è il contorno grafico delle sue immagini, acquista una dignità pari, se non superiore a quella dell’immagine vera e propria. Quello è il “continuum” dell’opera, mentre l’immagine, per quanto più evidente e in primo piano, potrebbe addirittura essere intercambiabile.

Così, il quadro diventa paradossalmente una “cornice” di se stesso. Serve a inverare le immagini scelte, (quasi) esattamente come avviene nel supplemento del Corriere. Con una differenza, non solo tecnica ma anche etica. Che la pittura dura molto, molto di più.

Analisi a due voci
Intervista ad Andrea Zucchi…quasi un Autodafé

di Ivan Quaroni

Una molteplicità di elementi visivi popola le tele di Andrea Zucchi, artista milanese (classe 1964) incline a dar vita a sorprendenti accostamenti e stranianti giustapposizioni iconografiche. Nei suoi quadri, Natura e Civiltà tecnologica si passano il testimone, citazioni colte e piacere per la mimesi si mescolano, generando suggestioni inedite. Autore di una ricerca figurativa di lontana ascendenza metafisica, Zucchi inserisce nella struttura visiva dei suoi quadri, elementi geometrici di sapore Neoplastico, in cui riecheggiano influssi della grafica digitale.
Attingendo al repertorio fotografico della carta stampata, l’arte di Andrea Zucchi, trova il proprio equilibrio nella coesistenza di elementi opposti e contradditori.

SUITE

Ivan Quaroni: Al primo impatto, l’elemento più evidente dei tuoi lavori è l’effetto di straniamento, provocato dalla giustapposizione di immagini che non hanno alcun nesso tra loro…

Andrea Zucchi: In effetti, sono frammenti di realtà che associo artificialmente e che volutamente non sono in relazione tra loro, se non talvolta per sottili e arbitrarie analogie. Essendo attratto da una moltitudine d’opzioni tra cui non sò o non voglio scegliere, devo inevitabilmente escogitare delle connessioni tra elementi incongruenti, accumulando così una serie di contraddizioni che si stratificano senza confondersi.
Se questo genera un effetto di straniamento, probabilmente è il riflesso della mia confusione di fronte alla molteplicità d’impulsi a cui mi sento sottoposto. La pittura, per me, è in parte un tentativo di fermare questa forma di visione multipla, esteriore o interiore che sia, di filtrarla, solidificarla e renderla così parzialmente intellegibile, attraverso un fittizio ordine formale.

I. Q.: Tuttavia, l’osservatore è portato a trovare una correlazione di senso tra le diverse immagini …

A. Z.: Nei miei primi lavori giocavo sull’ambiguità dei significati di queste immagini sovrapposte. Creavo, diciamo, l’illusione di una storia che in realtà non aveva alcun fondamento. In questi ultimi lavori, invece, le giustapposizioni iconografiche hanno assunto per me un valore esclusivamente formale. Nonostante, si trattino d’accostamenti di natura prevalentemente visiva, è pressoché inevitabile che alcune persone tendano a proiettare sui miei lavori significati ai quali non ho mai pensato. Ma il fatto di indurre ancora nello spettatore le domande “Perché?” e “Cosa significa?” lo ritengo un limite, un gioco poco interessante, in quanto non ritengo che risieda lì il potere di fascinazione di un’immagine.

I. Q.: Vuoi dire che da parte tua non c’è una premeditazione sui possibili significati che le tue opere possono suggerire?

A.Z.: Ovviamente ci penso, e molto. Le scelte associative che compio sono in parte istintive e in parte ponderate, mai però del tutto casuali. Sono cosciente delle possibilità d’eventuali interpretazioni, ma quello che mi preme è piuttosto l’assemblamento d’immagini sulla base di una scelta formale e compositiva, non narrativa. Utilizzo banalmente il meccanismo delle libere associazioni, già sfruttato sistematicamente dai Surrealisti, ma non nel senso dell’automatismo psichico, che richiede all’artista di porsi come recettore medianico delle forze dell’inconscio. Più che sull’onirico direi, sono un medium che si sintonizza sul multimediale. Voglio in qualche modo fermare il flusso caotico d’immagini dei media e renderlo oggetto di contemplazione, non d’interpretazione.
Devo dire che, a parte una certa fascinazione giovanile per Breton e per Max Ernst, il Surrealismo non mi ha mai conquistato del tutto. Soprattutto all’inizio, il mio lavoro è stato influenzato dalla pittura Metafisica e dall’arte di Francis Bacon, che precedono e chiudono quel movimento. Allora dipingevo quadri che erano degl’interni alla De Chirico, abitati da figure stravolte, al limite dell’orrorifico.

I. Q.: Un altro aspetto evidente della tua ricerca è l’inserto di elementi geometrici di ascendenza Neoplastica, che possono essere interpretati come un tentativo di razionalizzare l’immagine. È così?

A. Z.: L’aggiunta di elementi geometrici sull’impianto figurativo è il frutto di un lungo percorso. Ho iniziato con l’inserire delle linee che attraversavano il quadro come una sorta di ferite. Poi ho trasformato queste ferite in linee sottili che, come fossero dei mirini, avevano la funzione d’inquadrare l’immagine. Più tardi, le linee si sono trasformate in quadrati e rettangoli che richiamano da un lato gli artisti Neoplastici e dall’altro l’influsso della grafica digitale. Oggi, questi elementi intrusivi sono diventati uno strumento di separazione tra un’immagine e l’altra.
In origine queste aggiunte erano il riflesso di una forte insoddisfazione verso il mio lavoro, un’attitudine che mi obbligava ad intervenire continuamente sulla tela. Col tempo questa mia debolezza si è trasformata in un Modus Operandi, diventando un elemento costitutivo della mia cifra stilistica. È come se, senza quel tipo d’intervento, non riuscissi a chiudere il quadro, a distaccarmi da esso.
Nonostante l’influenza della grafica digitale, ci tengo però a sottolineare che sono un purista della pittura e che la tecnologia in arte m’interessa relativamente. Anzi, amo la pittura e la considero la più pura tra le arti visive proprio per la sua povertà di mezzi; bastano un supporto qualsiasi e dei pigmenti, perché in essa il processo del pensiero si manifesti senza intermediazione. La pittura non concede trucchi se non quelli specifici del mezzo, ed è per questo che è così difficile.

I. Q.: Qual è la fonte iconografica dei tuoi quadri?

A. Z.: Parto sempre da un’immagine fotografica, di solito scelta sfogliando ogni tipo di rivista o di libro. Quando trovo qualcosa che mi colpisce, sento il bisogno di riprodurla, di cedere al mio impulso di mimesi.
Successivamente, come se si trattasse di una composizione astratta, o di un blob pittorico, rifletto sui possibili accostamenti. Più che dal fluire della vita sono affascinato dalla staticità delle immagini, soprattutto di un mondo che non conosco e che vorrei fare mie, traducendole in pittura. Non credo però di essere uno dei tanti epigoni di Gerhard Richter, anche se è un pittore che stimo e amo, specialmente la serie “18 Oktober 1977”.
Copiare le fotografie è sempre stato un impulso naturale e primario che ho iniziato a praticare fin da bambino, qualcosa che mi soddisfa momentaneamente, ma che finisce per rivelarsi inadeguato, come un dolce a cui non riesco a resistere ma che mi lascia un retrogusto di nausea verso me stesso.
Cedo a quell’impulso, sò che me ne pentirò quando sarò sazio, ma poi inizierò di nuovo ad abbuffarmi al prossimo stimolo.
Ciò nonostante credo che il riutilizzo dell’immagine fotografica sia in qualche modo uno dei temi principali che la pittura stia oggi ancora affrontando, e preferisco affrontarlo direttamente sul piano duro e puro del realismo, piuttosto che ricorrere ad espedienti ultrasfruttati di marca neoespressionista, pseudodigitale o peggio ancora pop.

I. Q.: Nei tuoi lavori si avverte la fascinazione per il mondo Orientale e per l’esoterismo: monaci Shaolin, Shadu indiani, donne col burka, reperti dell’antico Egitto…

A. Z.: Sono elementi che derivano sicuramente dal mio amore per i viaggi e per l’Oriente, anche se, per la verità, ho sempre preferito dipingere cose di cui non avevo esperienza diretta, passando attraverso la mediazione fotografica.
Quanto all’esoterismo, è stata la mia ragione di vita tra i 17 e i 24 anni circa. Mi sono interessato a varie dottrine orientali e occidentali, in particolar modo allo Gnosticismo, e sono entrato a far parte di un gruppo Rosacroce, ma poi mi sono accorto che stavo vivendo quell’esperienza in modo distorto e forzato e me ne sono allontanato. Oggi, rispetto a quegli insegnamenti, pratico una sorta di sospensione del giudizio. La mia anima, se ne ho una, è caduta in uno stato di sonno.

I. Q.: Proseguendo nella disanima della dialettica degli opposti, che mi sembra una caratteristica precipua del tuo lavoro, ho notato che spesso accosti l’universo naturale a quello tecnologico e civilizzato…

A.Z.: Ho sempre amato disegnare animali sin da bambino. Sono affascinato dall’immensa varietà di forme che la vita può generare, sia a livello biologico che culturale, poiché non percepisco ciò che l’uomo crea come qualcosa di separato dalla natura. Siamo immersi, credo, in un’unica realtà di cui cogliamo qua e là solo dei microscopici frammenti in relazione al nostro stato di coscienza e deformati dal nostro ego. Forse il mio bisogno costante di congiungere realtà distanti tra loro non è che un modo di ricercare o di desiderare un’unità originaria che non riusciamo mai ad afferrare. Un’unità eraclitea che contenga in sé un’infinita molteplicità di mondi in continua trasformazione.

I.Q.: Quanto sei stato influenzato dalla letteratura, in particolare da quella fantascientifica? (Abbiamo parlato di Dune di Frank Herbert, ricordi?).

A.Z.: Mi ha fatto molto piacere quando, vedendo dei miei lavori che rappresentavano delle donne in burka, mi hai detto di aver pensato più al ciclo di Dune che all’Afghanistan, non mi sarebbe mai venuto in mente, ma effettivamente è stata una lettura recente che mi aveva incantato. Leggo con grande trasporto libri di fantascienza, noir e horror, ma la mia formazione è tendenzialmente più legata alla tradizione della Grande Letteratura che a quella di genere, e prima che alla pittura mi sono dedicato per breve tempo alla poesia, con risultati incerti.
Anche se come pittore mi sono avvicinato sempre di più a
posizioni puro-visibiliste, il mio retroterra è sicuramente
impregnato di romanticismo e simbolismo.

I. Q.: Come giudichi la tua ricerca artistica nel contesto attuale?

A.Z.: Un disastro probabilmente, perché mi ritrovo sempre nella fazione dei cani sciolti, ma quelli isolati, non quelli che almeno fanno gruppetto. Sono guardato con sospetto dagli avanguardisti dell’ultimo minuto perché troppo legato a un linguaggio pittorico tradizionale, ed evitato da chi sostiene una pittura rassicurante in quanto ritenuto “difficile”, ovvero poco idoneo a decorare salotti. Mi sento purtroppo come un orfano del dadaismo, ormai annoiato dai giochini intelligenti di Duchamp e abbagliato dallo splendore irraggiungibile di Velasquez.
A parte ciò, il panorama attuale è bizzarro e deprimente ad un tempo, perché quando tutto è fattibile, diventa tutto piuttosto vacuo ed aleatorio. C’è molta professionalità, molto entertaining, e anche naturalmente molta sciatteria, ma è veramente raro vedere qualcosa di realmente emozionante, necessario e rivelatore. L’arte contemporanea ha generato una sequenza continua d’effetti speciali che non generano più né effetto, né sorpresa, dove il più delle volte si riciclano sempre le stesse idee trite e ritrite. Eppure quasi nessuno n’è immune, ci siamo dentro tutti, bravi e meno bravi. Dall’aspirare alla Gloria siamo passati a desiderare il successo, che è tutt’altra cosa.
“O tempora, o mores!”.

I. Q.: Vorresti essere un artista diverso da ciò che sei?

A.Z.: In teoria, mi piacerebbe essere un pittore più istintivo, meno trattenuto, più libero, ma forse solo in teoria, perché in Arte sono un fautore di quell’indefinito “Grande Stile” che richiede comunque un forte controllo formale.
Certo, la pittura troppo rifinita e descrittiva non m’interessa, ma paradossalmente la mia natura mi ha portato nella direzione opposta. Il fatto di non essere mai soddisfatto di quello che faccio, di ritornare più volte su uno stesso quadro, ha fatto di me un pittore formalmente “pulito”.
Il piccolo dramma della mia pittura è, dunque, quello di sembrare fotografica e illustrativa, pur essendo generata da una stratificazione caotica di sovraimpressioni.