I vicini non fanno rumore
a cura di Mimmo Di Marzio dal 25 febbraio al 21 aprile 2009
Ordinarie Follie
Come altri artisti della sua generazione, Annalisa Pirovano ha orientato fin dall’inizio il proprio percorso nel filone dei cosiddetti pittori della realtà. Un codice, beninteso, tutt’altro che univoco sia in pittura che in scultura ma che, al contrario, si declina in una molteplicità di poetiche spesso accomunate da un desiderio di spregiudicatezza e disincanto nei confronti dell’immagine quotidiana. Nel lavoro della Pirovano, questo approccio si carica di valenze estetiche e simboliche peculiari che attingono a diversi ambiti: quello della cultura dei media e della cronaca, esplicitato anche attraverso l’uso sapiente delle monocromie, quello un po’ crepuscolare della cinematografia noir (diciamo alla Tarantino), quello della letteratura minimalista americana alla Truman Capote.
Pur essendo un’artista di conclamate doti tecniche, le sue opere non soggiacciono mai ad una mera sperequazione stilistica ma pongono sempre l’accento sul primato della narrazione, che vede l’ambiente domestico divenire il muto palcoscenico di psicodrammi in atto o in divenire. La scena, quasi sempre, è costituita da soggiorni o sale da pranzo immortalate dopo il tramonto in un microcosmo claustrofobico affollato da una moltitudine ossessiva di oggetti.
Epicentro della sequenza –per usare un’espressione cinematografica- è sempre la figura umana, ora ripresa di spalle ora frontalmente, immersa in una sorta di passiva attesa. L’atmosfera, ispessita dallo sguardo febbrile dei volti o dalla tensione corporale, è intrisa di una sospensione assordante che sembra preludere a una tragedia imminente. Oltre il racconto, è il rapporto spazio-tempo a dominare la rappresentazione che pare visivamente immortalata dall’occhio di una telecamera o da quello di un invisibile personaggio appartenente alla scena o nel ruolo di “io narrante”, o di carnefice o di vittima. L’angolo visivo, per paradosso, viene spesso ad interagire con un televisore acceso che sembra a sua volta guardare lo spettatore, aumentando la tensione e il senso di alienazione dentro la scena.
L’opera si conforma in un realismo magico dove la cura quasi ossessiva del dettaglio di una tappezzeria o di un soprammobile pare sottolineare un’ordinaria follia. Una quotidianità apparentemente dimessa per la semplicità e ripetitività di soggetti e modelli, ma che rimanda ad una realtà altra, straniante ed immersa in una sorta di malinconica segretezza. L’inclinazione dell’artista verso il linguaggio fotografico e cinematografico riprodotto sulla tela si evince dall’immobilismo onirico ed incantato nel quale paiono sospese le sue figure, colpite da una luminosità fissa e chiara.
Mimmo Di Marzio