Take Five
a cura di Cecilia Antolini, Chiara Canali, Stefano Castelli, Luca Doninelli, Alessandro Trabucco. dal 15 novembre al 22 dicembre 2006
Dal catalogo “Take five”
Lavorano a 4 mani J&Peg, al secolo Antonio Managò e Simone Zacubi, per creare i loro mondi (im)possibili.
Il lavoro è tutto in comune, dalla ricognizione tematica che precede il progetto alla realizzazione tecnica in tutte le sue fasi. Aprono luoghi senza orizzonte, ambientazioni al limite del surreale entro cui lasciano entrare
personaggi rapiti alla realtà. Merita una parola la tecnica che scelgono, lunga e complessa, fatta di costruzioni materiali di modellini e piccoli set semicinematografici, scatti fotografici e interventi pittorici. Tra citazioni colte
e scelte spaesanti, fantascienza e tradizione si dividono la scena. La pittura e la fotografia fondono la realtà esterna (foto) con quella interiore (pittura) per dar vita a uno spazio iperreale che ha le sfumature dell’emotività
e il rigore dell’oggettività.
Sfondo ad azioni sospese di personaggi immortalati in gesti e pose densamente simbolici è un nero intenso, mai cupo. Misterioso, è il nero della notte, che attira come l’amplesso e spaventa come la morte, dove tutto è indifferentemente senza distanza o a distanza infinita. È la notte nota all’anima dell’Artista, dove genitura e morte si intrecciano nel gioco delle ombre. I loro lavori dischiudono mondi altri, dimensioni di stupefacente e
pericolosa libertà piena di rivelazioni. Il senso delle immagini condivide l’ambiguità del sogno, il cui senso è ambivalente, presentito e vissuto senza il passo successivo compiuto dalla logica che concettualizza. Mettono in
scena spazi esistenziali, popolati della presenza di entità affettive fitte di rimandi analogici e legami allegorici.
Se un occhio guarda alla tradizione, da cui prende in prestito pose o elementi simbolici, l’atteggiamento resta sempre produttivo di connessioni nuove. Segni antichi tornano immersi in contesto contemporaneo, rivelando
quel potere -di cui l’arte è portatrice indiscussa- di ridefinizione di sensi nuovi nonostante l’uso di segni già noti.
Produttiva per definizione, rispetto al suo senso, l’opera può riprendere una tradizione e fondarne al contempo una nuova, inaugurando inedita dimensione semantica che “dà senso e consacra assai più di quanto non dia inizio”1. J&Peg sfidano costantemente il tarlo del contro-segno 2, quel segno così chiaramente dichiarativo,
immediatamente comprensibile, che proprio per queste sue caratteristiche apparentemente funzionali a una sua più accessibile comprensione perde vitali sfumature, inserendosi in un discorso retorico inconcludente e
improduttivo. Richiedendo un processo di recupero abituale che non esige nessuna modificazione delle ordinarie operazioni di fruizione 3, esso sembra quindi esprimere qualcosa prosaicamente o direttamente, manifestando in questo modo la propria strutturale inadeguatezza alla dimensione produttiva e stratificata dell’arte.
I simboli di J&Peg hanno la caratteristica apprezzabile di muoversi al limite di questa dimensione, senza mai caderci e senza mai perdere occasione di mostrare (e dimostrare) come sia possibile che qualcosa diventi significato senza allusione a idee già formate e acquisite.
Cecilia Antolini
1 Dufrenne M., Estetica e filosofia, Marietti, Genova 1989, p. 5.
2 Cfr. D. Formaggio, L’arte, Istituto Editoriale Internazionale, Milano 1977, p. 194.
3 “Anziché sorgere nullificando i morti sistemi fossilizzati di vecchie retoriche o di stantie regole accademiche, si adagia
supino e passivo, segno che nasce morto, in stanche ripetizioni figurali di un repertorio o troppo noto e logorato o d’altro
cielo, d’altra compossibilità di totalizzazione, di altra compatibilità reciproca di assieme.” (Ivi, p. 202.)