Loris Di Falco Back streets – Spazio Bigli – 14 novembre 2013 a cura di Giovanni Frangi
Testo
Il catalogo della mostra
Back streets
Giovanni Frangi
In quale luogo segreto si trova un artista quando decide di confrontarsi con un foglio bianco e con la matita ? Loris ha deciso di non usare né la matita né il foglio bianco ma ha trovato in quel luogo segreto una pace della mente. Loris da quando ha deciso di passare dall’altra parte della barricata è cambiato. Intendiamoci. E ’sempre il solito inquieto e per questo ci piace , ma ha trovato una sicurezza e una tranquillità nei confronti di sè stesso che noi tutti sempre cerchiamo. Il mio amico Massimo Recalcati sarebbe più adatto a scrivere questa nota e troverebbe certamente spunti per scrivere interi capitoli. Non perché Loris sia pazzo ma perché l’arte è effettivamente una terapia e tutti gli artisti sono in parte pazzi. Una città che cambia in cui le sculture del Monumentale si avvinghiano ai grattaceli in uno strano abbraccio. La tecnica che Loris adotta è sofisticata . Gira per la città come un Pittore girovago col taccuino. Scatta le fotografie, le elabora e trasformandole le reinventa. Poi le ingrandisce dividendole in tanti rettangoli con una scansione regolare, come Mario Schifano quando dipingeva sulle carte da pacco incollate alle tele. O come nei disegni giovanili di Gilbert and George quando invadevano le pareti delle stanze coi paesaggi alberati sulla riva del fiume, con loro due che ammiravano lo spettacolo e sembrava che parlassero in silenzio. Tutto pane per i miei denti. Questi lavori della più celebre coppia della storia dell’arte erano fatti avvicinando uno all’altro dei fogli di carta rettangolari e incollati tra loro con lo scotch, creavano in quel modo un ambiente in cui lo sguardo non si stancava mai di scrutare le cose. La tecnica è spesso il motivo primo più interessante, perchè ogni artista ne scopre una sua. Il problema è quello di liberarsene prima di diventare troppo bravi. Loris ancora non è abbastanza bravo quindi può tranquillante insistere su questa strada e sono certo che sarà in grado di stupirci un’altra volta . Aveva proprio ragione Mercedes quando sorridendo disse “ Perché hai fatto il gallerista tutti questi anni ? “mentre il direttore del glorioso Spazio Obraz mostrava il suo ultimo lavoro su alluminio, secondo me il più riuscito della serie. Su un foglio di allumino leggero, recuperato da una stamperia, la Torre Velasca diventa tutt’uno con un’altra forma poco definita. Solo in bianco e nero. Col riflesso del metallo che fa vibrare l’immagine. Eccellente. Ma gli artisti possono diventare famosi anche da grandi? Sembra che qualcuno abbia detto di no. Ma Loris è vecchio o è giovane ? Ma vuole diventare famoso ? Boh.. ma sono sempre affascinato quando sento nel lavoro una spinta verso un cambiamento che è sempre sintomo di giovinezza. Non sopporto gli artisti che esibiscono la loro maestria, alla fine sono soltanto noiosi. In questi lavori su alluminio c’è molto futuro. Più algidi. Più freddi. Vai verso Gaspard David Friedrich, vai più a nord Pittore ! Non sono un critico, né un curatore ma avverto così a pelle che qui esiste una necessità creativa che automaticamente legittima queste opere. Si sente che c’è dietro una storia. Perché Milano ? Perché il Monumentale ? Punto, non lo sappiamo. Loris non ce lo dice, anzi vorrebbe dircelo ma noi facciamo finta di non sentire .
Ritorno alle rovine
Vestigia, rovine personali. L’ultima serie di Loris Di Falco, La città con la casa di vetro¸ non è solo un tributo a questa città che sale nel corso del rinnovamento urbanistico/architettonico occasionato dal grande evento (che non è il judgement day bensì la grande exposition universelle), ma anche e soprattutto il riconoscimento (e l’esaltazione) della sua vita silente, che palpita dalle rovine di luoghi dismessi dove le ataviche vestigia parlano il loro affabile silenzio. Che è anche il silenzio di un fare arte in cui il personale si trasfigura nel personale. Nella quiete degli spazi abbandonati Loris Di Falco ritrova non solo il proprio sé, ma anche il sé della stessa umanità. Stille leben, traduzione del Tedesco che l’Italiano, incarnando una tradizione mortifera, traduce con natura morta. Fotografia ma non solo. Vita silente ma non solo. Quello di Loris Di Falco è uno sguardo intimista a una città in-via-di-(ri)apparizione, negli anni vissuta così, con un’attitudine da flâneur, un po’ bohémien, e ora ri-visitata con uno sguardo “altro” rispetto a quello delle magnifiche sorti e progressive dell’eccellenza architettonica in movimento, dove il nuovo sopravanza il passato calpestandolo, spostandolo, nascondendolo: alla metropoli è stato impedito di diventare vecchia e saggia. Vestigia universali e personali: quello che resta di una città da cui s’innalza la casa di vetro, il luogo-non-luogo, trasparente, di cui l’artista è un po’ il proprietario assente, percependo – e restituendo al nostro sguardo – nelle visibili rovine l’essenza metafisica di luoghi accarezzati dal passato. Tempus fugit, ma Loris Di Falco ci mostra, in quello che resta, non solo ruderi abbandonati, ma spazi che il tempo ha colmato di energia (di anime) che in quei luoghi e in quelle strade hanno vissuto, creato, lavorato, cazzeggiato. Ascolto il tuo cuore città, era il titolo del romanzo di Alberto Savinio: Di Falco ascolta la metropoli e ce la rende dall’alto e dall’interno, nelle serie degli esterni e degli interni, lontana da questo eterno presente brillante e cafone, disabitata, popolata solo da quelli che sembrano grandi monumenti inspiegabili, forse traccia di una dittatura o di una maledizione sovietica. Una Milano che, in queste opere, si ri-conosce facendoci andare col pensiero – anche – ad altre città, immaginate o no, oscure o preclare, come Gotham City, per chi conosce, o una Parigi alternativa, dove i gargoyles sono sostituiti da figure dormienti, come lo sono i luoghi stessi, restituiti a noi nella loro sporca purezza da uno sguardo forse un po’ malinconico, o forse no: l’immaginazione del resto si lascia ingannare, probabilmente per una tendenza alla malinconia, invitandoci a guardare non opere, ma scorci di una storiografia espressa attraverso il linguaggio dell’immagine. Sporchi, inevitabilmente inquieti e inquietanti, ma così carichi di fascino da attrarre a sé per l’esuberante bellezza che scaturisce dalla loro “vecchiaia”, i paesaggi, e possiamo chiamare così anche gli scorci interni, si fanno popolare solo da chi guarda, ed è naturale che chi guarda non si senta a suo agio, ma al contrario, in trappola, costretto a guardare ma a rimanere lì, affascinato.
Emanuele Beluffi