B.T.T.B.
back to the basic: disegni e carte d’artista
A cura di
Ivan Quaroni # Norma Mangione # Stefano Castelli
Antonella BERSANI, Luca BERTASSO, Marco CIRNIGLIARO, Roberto CODA ZABETTA, Davide COLTRO, Marco FANTINI, Giovanni FRANGI, Alì HASSOUN, Barbara GIORGIS, Daniele GIRARDI, Federico GUIDA, Paolo MAGGIS, Giovanni MANFREDINI, Carla MATTII, Fulvia MENDINI, Lorenzo MISSONI, Barbara NAHMAD, Davide NIDO, Alex PINNA, Eleonora ROSSI, Alessandro SPADARI, Carlo STEINER, Simone ZENI, Andrea ZUCCHI
B.T.T.B, titolo di un intenso lavoro di Ryuichi Sakamoto, è l’acrostico di back to the basic, ritorno alle origini, a ciò che è basilare, come l’alfabeto per la scrittura o le note per le scale musicali.
Nell’arte, ritornare alle origini significa ritornare al disegno, prima matrice dell’espressione visiva, alfabeto di segni che informa tutte le produzioni future…
Il disegno è, infatti, l’operazione fondamentale dell’arte, una forma dell’immaginazione primordiale, l’atto generativo con cui l’artista trasforma l’idea in rappresentazione grafica.
B.T.T.B. raccoglie le carte e i disegni di alcuni artisti italiani contemporanei, per mostrare una parte, in alcuni casi inedita o poco conosciuta, della loro produzione.
24 opere finite, ritrovate nei cassetti o eseguite appositamente per questa mostra, esposte alla maniera di una quadreria barocca o di una grande bacheca scolastica.
24 modi per tornare a quel primo e semplice gesto, che decide il destino di una vocazione.
24 pensieri su carta, disegnati o dipinti per amore dell’arte.
24 appunti contemporanei per spiare gli artisti nella loro intimità creativa.
B.T.T.B. è una mostra e una festa insieme. Vi aspettiamo per un’occasione d’incontro, un dopo Fiera per smaltire la sbornia di pubbliche relazioni del MiArt e ritrovare il gusto per l’arte autentica, fuori dal circuito Mainstream.
di Ivan Quaroni
“E perché da questa cognizione nasce un certo
concetto e giudizio che si forma nella mente
quella tal cosa, che poi espressa con le mani si
chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno
altro non sia che un’apparente espressione
e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e
di quello che altri si è nella mente imaginato
e fabricato nell’idea” . (Giorgio Vasari)
Sulla maggior vicinanza del disegno all’idea dell’artista, rispetto ad altre espressioni artistiche, la letteratura critica ha insistito dai suoi albori fino almeno all’Età dei Lumi. Da Vasari in poi la ricerca pittorica occidentale è stata distinta nelle due correnti del disegno e del colore, che facevano capo rispettivamente all’esemplarità di Michelangelo e Tiziano. Nel suo “Dialogo della pittura”, pubblicato a Venezia nel 1548, il critico Paolo Pino, pittore di esigua fama, afferma per bocca di uno dei protagonisti del suo scritto, che se Michelangelo e il Tiziano fossero un corpo solo sarebbe personificato “il Dio della pittura” .
Nell’arte contemporanea non c’è ragione di obbiettare sulla continuità del ruolo, come dire, “matriarcale” del disegno, di quel suo essere matrice di ogni elaborazione dell’artista. Quand’anche non espresso materialmente su carta, come nel caso di taluni artisti digitali che usano il computer saltando lo stadio disegnativo, oppure in quello di certi nuovi espressionisti, che dipingono direttamente sul supporto, il disegno resiste sotto forma di idea o di preliminare visione interiore.
Forse perché da sempre è il primo e prediletto supporto sul quale opera l’apprendista, abbiamo voluto includere in questa esposizione anche il variegato – e per la verità nebuloso – genere delle “carte d’artista”, il quale non necessariamente coincide con quello del disegno.
L’interesse di questa mostra consiste, per noi che l’abbiamo voluta, nell’osservare come il talento di ciascuno degli artisti invitati, si pieghi a questo confronto con una pratica (quella del disegno) oppure con un supporto (quello della carta) che dovrebbero ben aver appreso durante gli anni di apprendistato. Una pratica a cui oggi noi chiediamo di tornare con spirito libero, come dopo un lungo viaggio.
Il disegno su carta è per Alex Pinna una consuetudine quasi quotidiana, una palestra che appaga quella sua innata propensione atletica, per non dire agonistica, a riempire centinaia di fogli con le più sorprendenti apparizioni. In questa parte della sua produzione, non certo minoritaria rispetto alla pittura, alla scultura ed alle installazioni, Pinna utilizza il corpo bianco della superficie cartacea come spazio astratto la cui dimensionalità è suggerita dalle sue figure filiformi, da quei feti, sottili e allungati che, come icone silenziose, dispongono lo spettatore in uno stato contemplativo che lo isola, finalmente, dal folle rumore del mondo.
La dimensione poetica e visionaria è il fulcro della ricerca di Lorenzo Missoni, artista che, senza cedere a facili lirismi, è capace di formulare universi in perfetto equilibrio tra il senso del drammatico e la propensione alla sintesi. Il suo disegno, eseguito su carta lucida e poi applicato su un brandello di tappezzeria, rappresenta una figura dalle cui orecchie fuoriescono fili, congiunti alle estremità opposte con due megafoni. Con questa emblematica metafora Missoni prefigura forse l’utopica possibilità di diffondere all’esterno la “musica interiore” dell’individuo. L’impiego del brano di tappezzeria si ricollega ai suoi recenti Hotels, piccole installazioni in cui l’artista, coniugando musica e scultura, realizza visioni sintetiche e miniaturizzate, squarci di vissuto, capaci di evocare le sensazioni fisiche, auditive, olfattive e visive catturate tra le pareti di anonime stanze d’albergo.
Sebbene apparentemente distante dalla sua produzione più nota, il disegno di Antonella Bersani, intitolato, come la famosa opera di Courbet, “L’Origine del mondo”, mostra una perfetta coerenza con l’universo visivo al quale ci ha abituati. Composto da 4 rettangoli di carta accostati, il disegno della Bersani si presenta come una struttura ramificata, che rimanda alla visione aerea di un albero spoglio o ad un insieme di terminazioni nervose. Come le sue sculture in ferro e pannolenci, caratterizzate da una rigogliosa e coloratissima proliferazione vegetale, le trame della “Signorina B.” si diffondono minacciosamente nello spazio come un pericoloso ospite alieno. L’ambiguità femminea di questo suo disegno lieve, eseguito con matite colorate, è adombrata nel titolo stesso. Dimenticate momentaneamente le sue forme vulvari, questa Nouvelle origine du monde, finisce per riaffermarne la presenza persino con le allusive fessure tra un foglio e l’altro.
Carlo Steiner tratta la carta con la sensibilità volumetrica tipica dello scultore, talora accennando il rilievo in modo quasi impercettibile. I suoi Papier d’amour, eseguti disegnando linee di fuoco che traforano il foglio con filiformi bruciature, somigliano alle mappe di un territorio catturato da una fotografia satellitare. Con la pazienza di un miniaturista medievale o di un calligrafo arabo, Steiner traccia sul foglio i sentieri e le tracce di una topografia immaginaria, che cattura lo sguardo, imprigionandolo nella fitta trama delle linee e delle volute. L’amore, quello del titolo, è dunque l’espressione di una pratica assidua, di una passione che lentamente gioca le carte del proprio talento.
Per Daniele Girardi, alchimista impegnato a forgiare la struttura di nuove metamorfosi zoologiche, in bilico tra un Passato jurassico e un Futuro mutageno, la progettualità, intesa come studio scientifico degli incastri e delle sezioni anatomiche, si concretizza in fogli e formelle da cui riemerge il suo originario imprimatur di graffitista. Ancor prima di procedere alla composizione delle sue allucinate e ambigue creature, l’artista veronese fissa sulla carta il sogno mostruoso della mutazione. La sua X-Farm trova, infatti, nel disegno i prodromi di una ricerca formale dalle sottili implicazioni spirituali, che allude all’estetica dei Bestiari come alle ricerche empiriche degli scienziati illuministi. Al centro del suo lavoro è il concetto stesso di “trasformazione” che si manifesta non solo nelle fattezze dei suoi ibridi animali, ma nel suo stesso processo creativo, in cui mescola ad arte tecniche e materiali diversi, proprio come l’alchimista fonda i metalli e gli umori alla ricerca della pietra nascosta.
Come l’arte Rinascimentale e Manierista, la ricerca di Ali Hassoun trova nel disegno l’impianto primario della costruzione pittorica. L’artista libanese sviluppa l’idea di un possibile incontro tra la tradizione d’Oriente e d’Occidente, sotto il segno di una poetica di ascendenza neoplatonica e sufica. L’arte di Hassoun, apparentemente tradizionale sotto il profilo formale, ma profondamente evolutiva per le sue implicazioni misteriosofiche e spirituali, ha il pregio di mescolare nelle tele – come pure nell’acquarello qui esposto – il mondo iperuranio delle presenze angeliche, estrapolato dai cartoni di un Michelangelo o Raffaello, con l’incredibile vitalismo delle sue donne africane ed indiane.
Una sorta di diario intimo con tanto di annotazioni di pensieri ed aforismi è il piccolo taccuino di Marco Fantini, datato 2000. Tra i disegni e i dipinti eseguiti con tecnica mista, spuntano i pittogrammi tipici della sua ricerca, dal disneyano Mickey Mouse, sorta di pretesto visivo per l’elaborazione di forme fluide che suggeriscono l’idea di movimento, all’inquietante teschio che si accompagna a celebri quanto perentorie citazioni: “Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”. Le presenze che animano questo vademecum miniato, racchiuse nello spazio claustrofobico di una stanza assumono, come frammenti di visioni inconsce, le fattezze di personificazioni occulte, di incubi nati da uno sbandamento della psiche.
Quello di Giovanni Manfredini è poco più di uno schizzo, eseguito sulla carta intestata di un albergo. Il disegno dell’artista modenese ha il sapore di un ritorno alle origini, ad una pratica libera dalle convenzioni e dai dettami del mercato. Si tratta di un prezioso e delicato “nudo” che si ricollega apertamente all’oggetto principale della sua ricerca, il corpo, inteso come simulacro dai significati universali.
L’affiorare del corpo alla luce, metafora dell’uscita dell’uomo dal buio esistenziale, sembra aver trovato in questo breve schizzo una dimensione di pacata leggerezza. Il sublime e drammatico chiaroscuro, segno tipico dello stile di Manfredini, per una volta lascia spazio alla luce piena e il corpo, finalmente benedetto, assapora un’estatica pace.
di Stefano Castelli
Se si vuole dare ad ogni iniziativa artistica la dignità di una ragion d’essere, che consiste principalmente nella rispondenza ad istanze del ‘territorio’ culturale e, perchè no, sociale, bisogna ingannare il semaforo del sistema dell’arte contemporanea, che dà il segnale di verde secondo criteri derivanti da pregiudizi, interessi e soprattutto abitudini. Bisogna ingannarlo magari, come nel caso della presente mostra, fingendo di essere conservatori e di adottare proprio quei criteri.
Back To The Basic propone agli artisti un’idea curatoriale che si configura ad un primo impatto come restrittiva: l’obbligo di realizzare disegni o opere su carta. Si tratta invece di una sfida e di un tavolo di confronto per artisti omogenei come generazione e a gruppi anche come stile. Ne risulta anche l’occasione di realizzare opere diverse dalle abituali per alcuni artisti giustamente o meno stereotipati dal mercato e dal sistema espositivo, senza voler affermare che la produzione da parte di un artista di opere sempre simili a se stesse sia una cosa negativa di per sé, se motivata da un legame a doppio filo con la propria poetica.
Il disegno accomuna moltissimi artisti: non dirò che sia alla base di ogni opera d’arte perché trascurerei ad esempio alcune espressioni ‘immateriali’ del concettualismo e le più avanguardistiche proposte dei Postmoderni di cui negare l’importanza sarebbe, questa sì, posizione davvero conservatrice. Tuttavia ridurre ad un minimo comun denominatore il lavoro di questo gruppo di artisti per farli confrontare (non in senso competitivo ma dialettico) su un terreno comune è davvero stimolante. Se i prodotti di questo impegno dovessero aprire una nuova strada per qualcuno dei partecipanti, BTTB ci regalerebbe una stratificazione di poetiche affascinante nell’opera di alcuni dei più interessanti artisti di nuova generazione.
Dopo gli anni del boom del video e della fotografia, dopo un ritorno alla figurazione e alla pittura altrettanto integralista quanto la loro ciclica rimozione da parte delle mode imperanti nell’arte contemporanea, in un periodo di pretesti curatoriali piuttosto che di idee, sembra opportuno far confrontare gli artisti con dinamiche ed implicazioni che focalizzino ed aiutino a sviluppare questioni di poetica, tecnica e significato.
Luca Bertasso è un artista che sembra aver intuito molte verità, ma per timidezza o gentile ritrosia ce le presenta in forma semi-criptata: realizza composizioni e ritratti più surreali che Surrealisti che suscitano nello spettatore la sensazione di dover decifrare ciò che vede, come se si trattasse di allegorie. Non volendo risultare pedissequo, Bertasso ha posto una simbolica data di scadenza sui suoi lavori, come a concederci un tempo limitato per condividere con lui le sue intuizioni. Nel caso di “The battle of evermore” propone un duello fra due lati della personalità dello stesso soggetto, cui presta i propri tratti in un’operazione estetica di universalizzazione del particolare e del personale.
Giovanni Frangi ha recentemente voluto includere, tramite inserti di diversa natura, l’elemento accidentale nei suoi paesaggi ‘assoluti’. Accidentale che nella realtà della visione è costituito dal mutare progressivo e ciclico della luce, quindi dal tempo che passa, mentre nella rappresentazione di “Giovanni a Stromboli” è costituito da un foglio di gelatina gialla che permea di sè il disegno. Non si tratta assolutamente di una compromissione con il realismo di un paesaggismo di genere, è invece un’aggiunta di grande interesse formale nell’opera di Frangi, che compie rappresentazioni concrete ma archetipiche, “sospese”, che intersecano nella loro estetica luoghi fisici e luoghi interiori.
I paesaggi che Alessandro Spadari disegna –e dipinge- risultano invece da un’indagine meditatamente gestuale ed informale sul segno; si tratta di paesaggi che mantengono tutto il loro astrattismo e che sono allo stesso tempo ben delimitati e non collocati spazio-temporalmente. “Silenzio”, il lavoro in mostra, contiene tutti gli elementi che caratterizzano la ricerca attuale di Spadari: il nero che delinea in maniera definitiva il paesaggio pur restando segno, la colatura, i colori forti, armonici solo dopo una visione che si prolunghi per più di qualche attimo.
Gli acquarelli di Paolo Maggis ci lasciano avvicinare un po’ di più all’atmosfera di caldo distacco che l’artista ha ottenuto nella sua già ricca ricerca: ciò che vediamo è meno carico visivamente rispetto alla sua pittura ma è allo stesso modo equilibrato fra attrattiva e inquietudine. “Bill”, la creatura che prorompe dal suo lavoro è strettamente intersecata con la materia dello sfondo, dando un senso di disagio ma insieme la voglia di immergersi con essa in tale fluida materia.
Simone Zeni, autore di incisioni tanto discrete ed eleganti quanto forti, presenta in mostra studi di tronchi: ovvero indagini sulla forma che figurativamente rappresentano sia cortecce d’albero sia torsi maschili; i nodi degli uni coincidono con i punti di snodo dinamici dell’anatomia sofferta e incompleta delineata da Zeni. Questi tronchi escono (parzialmente) dallo sfondo come squarci di una luce molto pastosa, in una dinamica biunivoca che porta il soggetto verso lo spettatore e quest’ultimo verso l’opera.
Andrea Zucchi dimostra grande abilità nel passare dalla pittura ad un disegno realizzato con la penna a sfera, che grazie a un grande lavorio raggiunge la stessa densità dei suoi quadri. Le sue sono incasellature geometriche di diversi soggetti, qui un acaro e un monaco Shaolin, elementi disparati che convivono in un unico luogo. La forza di Zucchi è proprio quella di costruire scenari verosimili seppur contenenti accostamenti all’apparenza astrusi di soggetti eterogenei, sempre evitando di scadere in una didascalica narratività.
Carla Mattii, creatrice di elegantissime trasfigurazioni tridimensionali di nuove specie e, ciò che più conta, di nuove forme della natura da lei stessa create, presenta uno studio eseguito con la carta carbone che classicizza la sua flora da costruire tramite kit di montaggio: le istruzioni di tale kit sembrano uscite dalle pagine di un erbario insieme pre e post-illuministico. Nell’ambito del suo percorso creativo, metaforicamente demiurgico, la Mattii sta abbandonando la letteralità che perseguiva inizialmente nel ‘documentare’ le sue ibridazioni di diverse specie floreali, a favore di una rappresentazione traslata di queste forme inquietanti nella loro purezza.
Davide Coltro ha realizzato un lavoro di grande delicatezza con un procedimento opposto a quello per lui abituale: anziché togliere quasi tutto, qui egli inserisce pochissimo per realizzare il suo paesaggio fluviale su pellicola, il suo “Paesaggio comune”. Coltro non devia però dalla poetica della sua arte propriamente “di ricerca”, che compie un utilizzo delicato del digitale per indagare le coordinate dei nostri momenti quotidiani e dei loro corrispondenti stimoli percettivi, immagini isolate dal contesto ma proprio per questo valorizzate, dotate di una “direzione”, di una traiettoria.
Il risultato globale, valutato al netto della reazione da parte degli spettatori e dell’influenza che la partecipazione a BTTB avrà sugli artisti, è un insieme prezioso di appunti che sottolineano alcune tendenze comuni ai ventiquattro artisti in mostra e a molti altri della loro generazione: la raffigurazione di una figura umana insicura, dai confini incerti, spesso inseparabile dal proprio contesto, o incastrata in esso; un paesaggismo ‘trasfigurato’, non fine a se stesso ma teso alla riflessione sulla presenza umana, anche quando fisicamente assente; una mappatura esemplificativa dei riferimenti alla cultura di massa, pop(olare), quasi sempre filtrati da un’eleganza formale; infine un’attenzione ai temi della contemporaneità che evita le secche dello stereotipo imposto da meccanismi sociali o, peggio, dalla comunicazione di massa.
Il segno delle origini
Norma Mangione
Voglio dipingere la verginità del mondo!
Paul Cézanne
Le opere su carta sono quelle con cui ognuno inizia la propria carriera, all’incirca verso i due o tre anni, anche se, per fortuna, la maggior parte delle persone interrompe quel genere di attività già con l’insorgere dell’età puberale, per tentare di impararne qualcun’altra.
Le carte trasmetono una familiarità e un’istintualità maggiori di quelle che, nel passato, erano considerate le opere finite, per esempio I dipinti su tela o le sculture,. Come nel design (si pensi al lampadario di Ingo Maurer, composto da foglietti con appunti), o nella moda (i vestiti di carta di Issey Myake, ad esempio), anche nell’arte contemporanea il disegno e la carta, nonostante la loro fragilità, si sono aggiunti al vasto panorama delle “tecniche” e dei materiali utilizzati, evolvendosi dal significato di supporto provvisorio, schizzo o progetto. Nonostante resti un pendant, un fedele punto di partenza per altri lavori e uno strumento per fissare in modo veloce momenti e idee, il disegno, in quanto filo diretto col pensiero, mantiene un’aurea particolarmente concettuale. Alcuni artisti lavorano esclusivamente con il disegno. “L’apparente povertà del disegno mette paradossalmente in mostra l’importanza del progetto, la decisione di renderlo visibile, nella convinzione che l’arte e la cultura non sono certamente pratiche le cui coordinate si sono perse ingolfandosi tra le dinamiche onnivore dei media”.*
Nell’arte contemporanea non esiste più nessuna distinzione tra materiali più o meno nobili, anzi c’è una grande apertura nei confronti del nuovo e una rivalutazione di quello che era tradizionalmente, il basso, il rifiuto, il reietto. Quello che oggi chiamiamo disegno, può essere realizzato in migliaia di modi diversi: con elaborazioni fotografiche o digitali, con la colla o con bruciature, con la macchina da scrivere o con timbri, persino con il sangue. Può essere su carta, ma anche su legno, su marmo, o su materiali plastici.
E’ il caso di Roberto Coda Zabetta, che ha realizzato due dei suoi tipici “ritratti” frontali su acetato, la cui trasparenza esalta l’irrompere deciso dei volti nello spazio. Questi, tratti da fotografie scattate da lui o da immagini televisive, pur trasfigurati da pennellate materiche e gestuali, mantengono qualcosa di freddo, di analitico. La pittura di Coda Zabetta, che dialoga con la propria storia e col proprio presente, ovvero con la tecnologia e con il linguaggio dei media, rappresenta un archetipo del dolore contemporaneo.
Anche Barbara Nahmad ha utilizzato la carta da lucido che, in questo caso, crea giochi di sovrapposizione ed effetti ottici di sfasamento, distorsione, movimento. Abbandonate le tematiche della pornografia amatoriale, l’artista continua a trarre spunto da un immaginario mediatico e a portare avanti la sua “ricerca sociologica, condotta attraverso gli strumenti della pittura”.* Il suo lavoro attuale è ispirato da dei parallelismi che ha riscontrato tra la nostra epoca e gli anni ’60. In mostra c’è un doppio Che Guevara, un’immagine tratta da una delle sue fotografie in cui sorride e fuma il sigaro. Una vera icona laica di quegli anni, uno dei volti più impressi nell’immaginario collettivo, di immensa portata ideologica, politica e sociale.
Il disegno Dino è il ritratto di un personaggio frequente e molto rappresentativo del lavoro di Federico Guida. Il soggetto è sempre il corpo umano, il corpo di un uomo qualunque, non per forza bello, anzi vecchio, stanco e un po’ grottesco, allegro e malinconico come un clown. Le figure umane, in contesti familiari ma lisergici, sono realizzate con una pittura sapiente che trasfigura la fotografia e con uno stile fortemente personale.
Il mezzo fotografico, sebbene in modo più dissimulato, è il punto di partenza anche del lavoro di Barbara Giorgis. Nel disegno In volo emerge una figura umana, un’apparizione delicata e inquietante al tempo stesso, dove le sfumature dei colori creano un’atmosfera surreale.
Come Coda Zabetta, anche Marco Cirnigliaro dipinge con una ripetitività quasi ossessiva volti, in bianco e nero, ma con una tecnica completamente diversa, “sparando” il colore acrilico sulla tela con una “pompetta”. Anche gli intenti sono molto diversi: il lavoro di Cirnigliaro è più legato al presente, più narrativo. E’ il ritratto di una generazione. Il disegno eseguito per la mostra, in cui, dal buio horror vacui creato dal segno della biro, compare il viso di una ragazza, si può inserire in questo ciclo.
Si discostano nettamente dal linguaggio fotografico le opere, opposte tra loro, di Fulvia Mendini e Eleonora Rossi, in cui la figura umana è di nuovo protagonista.
Fulvia Mendini dà vita a un mondo onirico e ironico, utilizzando il mezzo pittorico con una grande pulizia formale e “una vena di surreale rigore geometrico che ci spiazza e ci diverte, colpisce i nostri sensi senza mai il rischio di cadere nel retorico o nello sdolcinato”.* Sia nei lavori con fiori sensuali e fantastici, sia nei ritratti, il soggetto si trova iconicamente al centro di sfondi colorati, in cui sono disposti simboli che forse suggeriscono qualcosa dell’intenzione dell’artista. In E alla fine a John brillarono gli occhi, nello sfondo ci sono un pappagallo e un cuore rosso, dalla forma di ex-voto. E infatti si dice che gli occhi “brillano” quando vi si scorge una sorta di innamoramento, dentro. Quella luce d’amore si è materializzata e gli occhi di John sono diventati davvero due brillantini.
Molto più drammatico il lavoro di Eleonora Rossi, un frammento di corpo che sfuma come un ricordo in colori cupi, accesi soltanto da veloci tocchi di rosso fuoco. Per questa artista il colore ha un significato emozionale. Quelle macchie rosse ricordano quelle dei test psicologici con le macchie di inchiostro da interpretare, in cui il rosso simboleggia proprio il rapporto con l’emotività e con il sesso.
Dalle opere di questi artisti emerge una forte tendenza dell’arte contemporanea, che è quella di lavorare sulla figura umana, sul corpo o sul ritratto. A dire il vero già Leonardo disse “l’uomo è il modello del mondo”.
Da questa “tendenza” si discosta Davide Nido, la cui ricerca è indirizzata verso un ambito più astratto. Nido fonde pittura e scultura, applicando sulla tela materiali insoliti e sintetici, come resina, silicone e, soprattutto, colla a caldo sparata con una pistola termica e crea delle trame geometriche con alcune parti in rilievo. Il suo lavoro in mostra, che si discosta solo formalmente da quelli più conosciuti, è eseguito su una tavola di legno. Qui l’artista interpreta la concezione di disegno come calligrafia. La sua calligrafia è libera dal vincolo significante delle lettere dell’alfabeto, è una scrittura interiore. Come un testo o un encefalogramma, è un segno che ci parla della persona che gli ha dato vita e, allo stesso tempo, ci parla del gesto istintivo del creare. Il segno delle origini.
Facendo il bene, nutrisci la pianta divina dell’umanità
Formando il bello, spargi il seme del divino.
Friedrich Schiller
*Gianni Romano (a cura di), Segni e disegni, Art Studio, Milano, 1993.
*Ivan Quaroni, Focus on, intervista a Barbara Nahmad, newsletter di Thatsart.it, 2004.
*Alessandro Riva, Fulvia Mendini-Flowering, Showroom Roberto Musso, Milano, 2003.