Davide Bramante


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Davide Bramante ” Camera con vista” a cura di Ivan Quaroni dal 30 novembre al 22 dicembre 2006

Testo

 

 

 

Camera con vista
A cura di Ivan Quaroni
La ricerca di Davide Bramante si muove lungo due linee direttrici: da una parte l’indagine fotografica, dall’altra la realizzazione di installazioni e lavori eseguiti insieme al figlio Leandro, un bambino di cinque anni.
Si tratta di due ricerche parallele, che permettono all’artista di formulare due diverse ipotesi di ricostruzione fenomenologica del mondo contemporaneo.
Mentre negli scatti fotografici di My own rave, Into the fiction e Circo Bramante, l’artista siracusano esplora, con una visione adulta, lo stratificato tessuto visivo delle grandi metropoli o il tempo fluido del Cinema e del Teatro circense, nei lavori firmati Leandro & Davide Bramante, traspone le dinamiche del rapporto padre-figlio entro i confini dell’arte contemporanea, mescolando attitudini ludiche e didattiche.
Nato nel 1970 a Siracusa e diplomatosi all’Accademia Albertina di Torino in Scenografia, Davide Bramante ha elaborato uno stile fotografico basato sulla sovrapposizione di differenti immagini nello spazio di un singolo fotogramma. Nella serie My own rave, l’artista documenta il paesaggio urbano delle grandi metropoli attraverso visioni condensate dei luoghi topici della città, ottenute tramite la tecnica delle esposizioni multiple. Le sue fotografie sono dunque il frutto di una stratificazione visiva, che imita la sovrapposizione di stili e culture delle moderne metropoli, comprimendone lo spirito nella caotica sommatoria dei luoghi deputati al consumo dei riti collettivi.
Piazze, mercati, ponti e stazioni si fondono in un continuum unico, che è insieme sintesi ed emblema di quella cultura.
L’artista utilizza la medesima tecnica anche nella serie Into the fiction: entra in un cinema e, nel buio della sala, come un moderno pirata, cattura i frammenti salienti del film proiettato per dare vita ad una sorta di riassunto visivo che permette allo spettatore di ripercorrerne la trama. In certi casi, come nella duplice serie My own rave + Into the fiction (2001), innesta i frame rubati da Johnny Mnemonic o The Matrix, da Gattaca o Eyes Wide Shut, sull’intricata struttura dei suoi paesaggi urbani.
Quella di Davide Bramante è una ricerca che tiene conto delle evoluzioni di un era antropocentrica, che ha voltato le spalle alla Natura per concentrarsi unicamente sull’uomo in quanto entità composta da mente e corpo. “La microelettronica – ha scritto l’artista – ha sradicato le connessioni sia di corpo che di mente, instaurando un processo culturale che oggi si fonda sulla riscrittura degli stessi. […] nuovi punti di vista si sono aperti di fronte all’uomo, strade sterrate che devono ancora essere battute. Una di queste è My own rave, un’opera che fa guardare avanti cercando di cementare il passato non in maniera definitiva, ma rendendolo pronto per una nuova mutazione”. Per l’artista, infatti, l’uomo deve adeguarsi a questo nuovo modo di vedere, a questa visione sintetica e simultanea, che è, infine, quella governa i sogni, i ricordi e i desideri.
In che cosa consiste la tua ricerca?
Io ho due lavori: uno è quello prettamente fotografico, che figura sotto il nome di Davide Bramante; l’altro è quello che realizzo insieme a mio figlio di cinque anni, e che consiste in una serie di lavori più dinamici.
Che cosa intendi per “dinamici”?
A Venezia, ad esempio, ho distribuito ai visitatori della Biennale oltre duemila bandiere di pirati. Questo lavoro, che è insieme ludico e politico, è nato l’estate scorsa, a Siracusa, dove io e mio figlio Leandro abitiamo. Un giorno, dopo un’overdose di cartoon e film sui pirati, Leandro mi ha chiesto di fargli una bandiera dei pirati. In seguito, in occasione della sua festa di compleanno, abbiamo regalato ai suoi amici trenta bandiere dei pirati. Ora, devi sapere che io abito in questo quartiere di Siracusa che si chiama Ortigia, così mi sono detto: “adesso faccio 200 bandiere e le installo sui tetti del quartiere tutte in una notte”.
E come hai fatto?
Mi hanno aiutato i ragazzi del quartiere, che sono un po’ come gli scugnizzi di Napoli. La mattina successiva, al risveglio, tutti si sono chiesti: “ma che diavolo è successo?”, persino i giornali. La cosa più divertente è stata che la gente del luogo, gli abitanti del quartiere, hanno iniziato ad inventarsi storie assurde per spiegare la presenza di tutte quelle bandiere. C’era chi diceva che dovevano fare delle riprese aeree per un film sui pirati, chi sosteneva che si trattava di un gioco, diffuso in internet, in cui i partecipanti dovevano esporre la bandiera, cercando di non farsela rubare…
Insomma, da questo episodio è partito il lavoro di Leandro & Davide Bramante, che è un gioco, ma anche un modo per spiegare a mio figlio alcune cose.
Vuoi dire che è un lavoro pedagogico?
Sì. Per esempio, ad un certo punto, ho iniziato a stampare il simbolo dei pirati sulle bandiere di tutte le nazioni in cui è in vigore la pena di morte o in cui ci sono centrali nucleari. Volevo spiegare a mio figlio che ci sono paesi, come gli USA, la Gran Bretagna, Cuba, l’Iran e molte altre, che pur non appartenendo alla nazione pirata, si comportano da pirati. Poi, ad un esame più approfondito, mi sono accorto che, al di là del nucleare e della pena di morte, quasi tutte le nazioni sono pirata, perché tutte cercano di fare solo i propri interessi.
Un altro lavoro è nato dalla considerazione del disimpegno statunitense nel protocollo di Kyoto sulla difesa degli equilibri ecologici e dai disastri provocati dell’uragano Katrina. Immagina che cosa può pensare un bambino di cinque anni quando guarda in televisione un disastro di tali proporzioni: “se Katrina arrivasse anche a casa nostra, se un’inondazione sommergesse Siracusa?”. Allora ho cercato di spiegargli che non può succedere a Siracusa, però abbiamo comunque preparato insieme piani di salvataggio e strategie di fuga, tipo uscire dalla finestra e arrampicarsi sul tetto… Poi ho realizzato una serie di disegni con il piano in scala del tetto di casa nostra, circondata dal fango, che in seguito sono diventate vere e proprie installazioni.
Questi sono tutti lavori che nascono come giochi, ma sono anche tentativi di spiegare a mio figlio il funzionamento del mondo, della società o la mia ideologia…
Come nasce, invece, il tuo lavoro fotografico?
Io ho studiato scenografia all’Accademia di Belle Arti di Torino, ma fin da subito mi sono accorto che, come materie, m’interessavano la Storia dell’Arte e la Fotografia.
Verso il 1995 ho iniziato la serie fotografica intitolata My Own Rave. In pratica, io non faccio altro che viaggiare nelle metropoli del mondo, fotografandole con la tecnica delle esposizioni multiple. In sostanza, si tratta di eseguire più scatti (da quattro a nove) su uno stesso fotogramma, concentrando nello spazio di una singola fotografia molteplici impressioni visive.
Quindi non ci sono interventi digitali?
Non in questa serie di lavori.
Perché hai scelto la città come teatro dei tuoi scatti?
Prima di tutto perché mi chiamo Bramante, come il famoso architetto rinascimentale e poi perché la metropoli mi ha sempre affascinato. Io vivo a Siracusa, una piccola città che duemila anni fa era una metropoli, un crocevia di culture come lo sono oggi New York e Londra, dove sono passati cartaginesi, ateniesi, romani e normanni, ma che oggi è piuttosto una realtà a misura d’uomo, una metropoli domestica. Io ho voluto fotografare le metropoli perché sono quanto di più diverso dalla mia città d’origine. E poi, c’è anche un altro fatto: io ho iniziato la serie My own rave a 23 anni, un’età in cui chiunque è affascinato dalle grandi metropoli.
Come è nata questa idea della visione simultanea di diversi luoghi della città?
Ogni mia foto vuole catturare la vera essenza di una città, ogni scatto ne ricostruisce l’identità. Non c’è bisogno di fare cento foto, quando una sola immagine può restituirti, in sintesi, l’anima di una metropoli.
Io ho notato che il mio modo di fotografare è identico al mio modo di ricordare, di sognare o di sperare. A volte, mi capita di sommare nella memoria un ricordo ad un sogno e a un desiderio. In alcuni casi, non riesco a capire se un certo evento l’ho vissuto, l’ho sognato oppure l’ho desiderato con tale intensità da renderlo più reale del vero.
Quanto tempo intercorre tra uno scatto e l’altro?
Nella maggior parte dei casi circa un’ora. Però, nel caso di Vulcaniche, che documenta il mio viaggio da Napoli e Catania, gli scatti sono stati eseguiti a distanza di un giorno: sono salito sul traghetto a Napoli nel tardo pomeriggio e sono arrivato a Catania la mattina presto…
Come riesci a fare più scatti sullo stesso fotogramma?
Semplicemente blocco la pellicola. Però è più facile a dirsi che a farsi. Se non conosci le regole della fotografia, infatti, rischi di bruciare la pellicola. Il segreto è suddividere il tempo degli scatti a seconda del numero d’immagini che si vogliono imprimere sullo stesso fotogramma. Se per fare una foto corretta occorre un venticinquesimo di secondo, ed ho intenzione di fare quattro scatti, so che dovrò tenere per ogni scatto un quarto del tempo che ho a disposizione.
Quindi ogni scatto imprime un’immagine leggera sul fotogramma?
Dipende. Posso anche calcolare i tempi di modo che uno scatto si veda più degli altri e che quindi nella fotografia un’immagine sia dominante rispetto alle altre.
Riesci sempre a calcolare tutto con precisione?
Certo, anche se ci possono essere degli imprevisti. Ad esempio, non puoi controllare il passaggio di una persona o di un’automobile davanti all’obiettivo.
Ti sarà capitato di buttare via molte pellicole…
Una volta tante, adesso poche. Sai, sono quindici anni che faccio questo lavoro…
Guardando le foto di My own rave, che sintetizzano lo spirito di una città con poche immagini sovrapposte, mi è venuto in mente Johnny Mnemonic di Robert Longo. Johnny, nel film, è un corriere che trasporta una quantità spaventosa di dati nella sua memoria, una specie di hard disk cerebrale potenziato. I dati però sono segreti e vengono codificati tramite tre immagini chiave. Ecco, mi sembra che anche tu, come il protagonista del film, codifichi una grande quantità d’informazioni visive in poche immagini chiave…
Pensa che ho realizzato una serie intitolata My own rave +Into the fiction, in cui ho fotografato alcune scene di Johnny Mnemonic e le ho miscelate con le immagini del Ponte di Brooklyn visto da Sea Port,.
Che cos’è Into the fiction ?
Si tratta di un lavoro al limite della pirateria. In pratica, entro in un cinema e durante la proiezione rubo dei frammenti di film adoperando la tecnica delle doppie esposizioni. Così, alla fine, nelle foto avrò un immagine che mi permette di ricostruire con la memoria l’intero film.
Proprio come Johnny Mnemonic con i suoi dati…
In un certo senso sì, però preferisco fare l’esempio del Duomo di Siracusa, un edificio che ha tremila anni di storia. è stato un tempio dorico dedicato ad Athena nel V secolo a.C.; si è trasformato in basilica cristiana nel VII secolo d.C.; è stato prima depredato dagli arabi, poi ricostruito dai normanni; ha subito le conseguenze del terremoto del 1693 ed è stata rifatta la facciata in stile barocco. Il Duomo di Siracusa è il risultato di molteplici stratificazioni storiche, mentre le mie foto sono il frutto di una stratificazione d’immagini…
Quali sono i tuoi riferimenti nel campo dell’arte?
Quando sono arrivato a Torino, all’età di 18 anni, ho avuto la fortuna di lavorare un po’ con Giorgio Persano, che mi aveva preso in simpatia: sai, ero un ragazzino che veniva dalla Sicilia, capiva qualcosa d’arte ed aveva bisogno di lavorare…
A Torino ho fatto l’assistente per Pistoletto, Mainolfi e Zorio. Ho amato molti artisti, come Paolini, ma non si trattava mai di fotografi. Decisi di trasferirmi a Torino perché negli anni Ottanta ospitava tutti i più importanti artisti dell’Arte Povera.
Finita l’Accademia, dove mi sono diplomato in “Scenografia”, ho frequentato per sei mesi il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, ma ho capito che il Cinema non m’interessava. In seguito ho vinto una borsa di studio della Franklin Furnace Foundation di New York e mi sono trasferito negli Stati Uniti per un anno. Ho vissuto a Bologna, dove ho fatto l’obiettore di coscienza e per un po’ anche a Milano. Insomma, ho viaggiato parecchio ed ho accumulato una serie di esperienze che sono alla base della mia ricerca. Perciò, per tornare alla tua domanda, posso dire che non sono stato granché influenzato da altri artisti. Almeno, non direttamente.
Oltre a My own rave e Into the fiction, quali altre serie hai realizzato?
Io realizzo anche altri lavori fotografici oltre alla serie My own rave, ma sempre con la tecnica delle doppie o più esposizioni. Intendiamoci, non è una tecnica che ho inventato io, ma credo sia importante che il mio lavoro abbia una riconoscibilità e sia contrassegnato da una particolare sigla stilistica.
C’è una serie intitolata Circo Bramante, che riguarda l’universo circense. Il Circo provoca essenzialmente due tipi di reazione nelle persone: una grande tristezza oppure una grande allegria. A me il circo è sempre piaciuto. Da bambino volevo lavorare in un circo. Tra il 1999 e il 2000 ho seguito in tournee una serie di compagnie circensi, vivendo insieme a loro e scattando fotografie su quel mondo.
Si può dire, quindi, che il mio lavoro segue essenzialmente tre direzioni: il mondo delle metropoli di My own rave, quello del Cinema di Into the fiction e l’universo fantastico di Circo Bramante.
Che tipo di sviluppo può avere la tua ricerca fotografica? Non credi che il fatto di avere uno stile riconoscibile possa diventare, alla lunga, una specie di prigione per la tua creatività?
Certo, ed è per questo che m’invento altri progetti come Leandro e Davide Bramante.
Io lavoro essenzialmente con due soggetti, la Galleria Studio La Città di Verona e la Fondazione Morra a Napoli. La prima è interessata unicamente alla mia produzione fotografica, la seconda, invece, accoglie i miei progetti più sperimentali, quelli appunto realizzati insieme a mio figlio.
Cosa pensi di quegli artisti che utilizzano la fotografia come strumento espressivo, senza averne una conoscenza tecnica?
Guarda, io insegno fotografia all’Accademia di Siracusa, eppure le mie fotografie non hanno nulla di scientifico. Io credo che ognuno debba fare come meglio crede. Magari, per un meccanico, io uso la mia automobile in maniera scorretta, esattamente come certi artisti, secondo il punto di vista dei fotografi puri, utilizzano impropriamente la fotografia…
La preparazione tecnica è importante, ma a volte può essere una gabbia. Non credo che si debba valutare una foto in base a criteri tecnici.
Quali fotografi italiani ti piacciono?
L’unico fotografo italiano interessante, secondo me, è Olivo Barbieri.
E stranieri?
Ce ne sono tanti, ma non sento affinità con nessuno. Gli americani e i tedeschi sono tutti bravissimi, sono dei mostri!
Parlami di Camera con vista, il progetto pensato appositamente per gli spazi ristretti di Obraz.
Negli anni Settanta e Ottanta, in tutte le case, sia quelle ricche che quelle povere, c’era la carta da parati, la cosiddetta tappezzeria.
Certo, chi non l’ha avuta?!
Io mi ricordo che da bambino, guardando tra le trame del decoro della tappezzeria, riconoscevo la forma di una città, di un volto di un animale. Forse era la voglia di evadere, di sfondare la parete con la forza dell’immaginazione. Nel progetto pensato per lo spazio di Loris, ho immaginato di ricostruire una stanza con la carta da parati e di aprire, con le foto di My own rave, tante ipotetiche finestre sul mondo. Delle finestre, però, che a differenza di quelle reali, ci permettono di vedere più luoghi contemporaneamente. Ho immaginato, quindi, un appartamento che avesse una finestra su New York, una su Il Cairo, l’altra su Berlino… Camera con vista è la realizzazione del sogno di un bambino e, allo stesso tempo, l’incarnazione della voglia di conoscere il mondo.
Hai mai riflettuto sul fatto che nei tuoi lavori il tempo viene annullato?
Diciamo che il tempo viene condensato. La foto con Time square, ad esempio, è emblematica. Se torni a Time square (la Piazza del Tempo) cento volte in un anno la scopri sempre diversa, perché viene continuamente ridisegnata dai cambiamenti delle insegne pubblicitarie.
Nelle tue foto sono fissate solo le tappe salienti di un percorso, mentre si avverte un totale disinteresse per ciò che intercorre tra l’una e l’altra…
In un certo senso, è un lavoro Pop, perché io ritraggo solo i luoghi emblematici di una città, quelli più significativi.
In ogni caso, è proprio della fotografia fissare il tempo. Il mio compito è capire quali siano i luoghi più significativi di una città e trovare il punto di vista più interessante per fotografarli.
My own rave è davvero un lavoro Pop?
Non è una cosa che mi piace molto, ma devo ammettere che è così. Pensa a tutte quelle piazze piene di cartelli pubblicitari e scritte luminose con marchi famosi come Coca Cola, Levis o Virgin…